In reportage/ travelling

Black And White – Zambia and Malawi

 

(…)

Come le mosche
Zona di confine tra Zambia e Malawi

C’e’ qualcosa di familiare qui, questo è certo.
Ricordi lontani che sanno di polvere e spezie, scritti in qualche angolo delle mie eliche accanto al sapore di sambussa, al ritmo dei tamburi, alla paura del fuoco e del leone.

Fiero di questa mia diversità dal maschio medio europeo mi ero anche abituato ai pullman africani a lunga percorrenza, siluri strapieni che sfrecciano a 160 chilometri orari lungo strade senza protezioni. Ero abituato alla scomodità, agli stop sotto il sole, ai venditori nelle soste, ai predicatori urlanti, ai mendicanti, al pianto ininterrotto dei bambini, alla puzza di pulcini caricati dai passeggeri mista a sudore, mais, cipolla, alici, carne cruda frollata al sole, uova sode, merda e banane.

Non ero pronto però ad un taxi abusivo di frontiera, che da Chipata in Zambia porta al confine col Malawi.
Salgo e a fatica trattengo la borsa dicendogli che contiene un oggetto fragile e la terrò sulle gambe. 20 mila kwacha a testa, contrattati partendo da 80. Sale il secondo, poi una signora enorme e la sua amica. Tutti e quattro dietro, schiacciati come sardine nella loro bara di latta. Accanto al guidatore un uomo sulla cinquantina, di ritorno in Malawi. Il driver accende il motore e grida qualcosa ad un omone con la maglia del south africa football, che prende ed entra davanti con i due. Sette, con borse e valigie. Viaggiamo sul semiasse, ad ogni buca salgono fitte alla schiena già provata da migliaia di chilometri percorsi in jeep e bus. Attraversa la strada e si ferma, scende, prende una manciata di soldi da un tizio che si mette alla guida al posto suo.

Un sasso che rimbalza su un torrente di asfalto: è iniziata la folle corsa.

Gli altri 6 sconosciuti non sono preoccupati della velocità, dello slittamento in curva, dei freni che non reggono. Discutono vivacemente delle prossime elezioni, dei partiti di opposizione, di soprusi, brogli, corruzione, malgoverno. In un’altra situazione sorriderei a queste dichiarazioni di uguaglianza sentendomi amaramente più vicino a casa, ma devo preparare il respiro alla prossima curva ed al prossimo sorpasso.

Nel mezzo di un rettilineo il driver tira con forza i freni ed il suono ruvido del ferro sui dischi mi fa distogliere lo sguardo dal parabrezza. C’è una buca enorme che dobbiamo aggirare, attraverso l’adesivo nero lacero del mio finestrino che malamente mi nasconde dai controlli della polizia osservo due telai di automobili, perfettamente ripuliti come ossa al passaggio di sciacalli con le chiavi inglesi. Mi chiedo quale sia stato il destino dei passeggeri, senza ospedali, antibiotici o antidolorifici. Oltre il confine la popolazione locale li avrebbe spogliati e derubati mentre supplicavano aiuto.

Una decina di minuti ancora ed inizio a vedere la colonna dei tir fermi in attesa del visto in uscita. Provengono dalle miniere, con il rame caricato in piastre quadre e sorvegliato con le armi o quello estratto in pesanti blocchi e lasciato scoperto ed incustodito perché difficile da rubare. Ci sono poi carichi con rame in blocchi misteriosamente coperto da teli, che affrontano la frontiera con un’autorizzazione in busta chiusa passata sotto i normali documenti di trasporto, una manciata di dollari per strappare via da questa terra metalli ancora più preziosi.

Superiamo la colonna e ci fermiamo davanti alla frontiera, apro lo sportello e quattro braccia mi bloccano sul sedile agitandomi in faccia mazzi di kwacha malawiani.

Change! Change!

Non devo cambiare, mi verranno a prendere oltre il confine. Non devo cambiare.

Non mi danno ascolto. Apro a fatica lo sportello contro quattro uomini: occhi rossi, pupille lucide, basterebbe la loro puzza di birra qui per ubriacarsi, digiuni e sotto il sole. Continuano a starmi addosso, mi frenano, ad ogni passo li stacco di qualche centimetro ma ritornano, come le mosche sugli occhi dei neonati.

Mi fermo, allargo le braccia e li spingo via. Sono offesi ora, agitano le mani, mi gridano contro nel loro inglese impastato. Arriva un quinto uomo e veste i panni del mio salvatore, mi affianca, mi cinge il collo con un braccio e grida loro di lasciarmi stare, guidandomi verso l’ingresso degli uffici di frontiera. Ora è lui a controllare il mio passo, mi frena, mi chiede.

Dall’Europa? Io voglio venire con te, amico, tu mi devi aiutare. Io ho aiutato te, ora mi devi dire: cosa fai tu per me? Come devo fare per venire in Italia?

La stretta al collo è forte, sono stanco del viaggio e di queste violazioni, stanco di stare attento a tutto.

Prendi un aereo.

Allenta la presa un attimo e mi libero allungando i passi verso gli uffici. Varco il suo limite d’azione perché smette di seguirmi per non oltrepassare una linea invisibile, urlando una lunga serie di imprecazioni in Bemba intercalate dalla parola musungu, uomo pallido.

Passaporto, libretto vaccinazioni. Modulo d’uscita, modulo d’ingresso. Il bagno è fuori, devi farla in un solco nel cemento che termina in una buca maleodorante.

Quattro uomini seduti all’ombra di un telo arrostiscono carne. Il braciere è un fusto di metallo tagliato a metà e la griglia è il radiatore preso da un vecchio frigorifero. Il profumo di barbecue mi toglie la nausea e mi chiedo se i ratti arrostiti sono così invitanti. Il vento mi sputa una manciata di terra rossa negli occhi. Un sacchetto di plastica sfondato vola come una manica a vento impazzita.

Non c’è nessuno ad aspettarmi. Traffico e disordini nella capitale, dovrò raggiungerla coi mezzi locali. Dovevo cambiare i soldi.

Speriamo di trovare un taxi che mi porti alla fermata del pullman…

(…)

 

Il cimitero delle termiti.

Ci vogliono 20 ore per raggiungere Lufubu a bordo di un tir, partendo da Lusaka e percorrendo un migliaio di chilometri verso nord-est, fino a trovarsi separati dal Congo solamente dall’omonimo fiume.
Ancora mi stupisco di quanto sia buia l’intera nazione, alle 5 del mattino le uniche luci nella capitale restano quelle dei veicoli che soffiano avanti le tenebre illuminando una popolazione notturna che si muove agilmente nell’oscurità. I bambini ancora dormono con le loro madri ma tra due ore, come cacciatori di tesori, rovisteranno alla ricerca di buste, bottiglie di plastica, borchie di auto e tutto quello che potrà essere riciclato. Il ragazzo e l’uomo cieco torneranno a mendicare al semaforo vicino Barclays e i venditori si prepareranno all’arrivo del traffico rifornendo i loro espositori con ricariche telefoniche, lettori mp3 da auto, soft drink ghiacciati, stura lavandini, accendini, cibo, profumi per abitacolo. L’odore della notte è soffocato da quello acre dei cumuli di rifiuti appena bruciati e dai bus locali che vomitano fumi densi e neri.
Il cimitero di Lusaka, privo di cinte murarie, giace impotente nella città esposto ai furti di cadaveri operati dai fanatici della magia nera ed al saccheggio dei ladri di bare e di vestiti.
Duecento chilometri più a Nord, nel compound di Kabwe, Patrick accende una candela e controlla la sorella. La febbre sta scendendo, anche questa volta la malaria se ne andrà. Esce dall’angusta stanza e attraversa quella dove dorme la sorella maggiore col marito ed il figlio nato otto mesi fa, protetto da un vestitino logoro ma pulito. Rosa. In un passo raggiunge la stanza adibita a pollaio e controlla il proprio operato: i 200 pulcini crescono sani, dovrebbe andare tutto bene. Sembrano lontani i momenti in cui, alla morte del padre, gli zii erano arrivati ad esercitare i diritti della tradizione locale portando via tutto e lasciando solo quattro mura spoglie: si è dato da fare ed oggi possiede due divani, un tappeto ed un televisore. Andrà tutto bene, si ripete e con una brocca prende acqua torbida dal secchio, ne beve un po’ e poi la dà ai pulcini.
Nella savana i contadini si incamminano verso i piccoli campi liberati e nutriti dal fuoco, mentre i cacciatori escono a controllare le trappole per topi. Qui si mangia tutto quello che cammina, nuota o vola. I grandi animali africani sono ormai un ricordo, mentre i gatti vengono cacciati in quanto antagonisti nel mangiare topi e cavallette.
A Nord, lungo il fiume Luapula e le sue paludi si va a pesca con le piccole imbarcazioni di legno per poi vendere in strada pesce fresco o essiccato al sole. I metodi tradizionali di pesca in alcuni casi sono stati sostituiti da tecniche più redditizie come la pesca con la dinamite rubata in miniera, la pesca con avvelenamento delle pozze d’acqua o quella con le zanzariere per la malaria regalate dall”ONU ed usate come reti.
L’alba assume un fascino unico soprattutto perché gli occhi durante la notte diventano assetati di luce. Osservo la savana riprendersi i colori e mi chiedo se stanotte i predoni hanno mietuto vittime. Ti rubano il veicolo e se sei fortunato ti legano nudo ad un albero, altrimenti ti sparano ad un ginocchio o ti fanno fuori direttamente così non chiami la polizia. Ma ormai è giorno…
Lungo queste strade nel nulla bambini di 5 anni vengono lasciati soli a vendere sacchi di carbone. Le donne espongono frutta, miele ed olio di palma chiusi in bottiglie di Pepsi e Fanta riciclate. Bevo una coca, butto dal finestrino la bottiglia e attraverso lo specchio vedo bambini lottare per accaparrarsela. Le frittelle fatte in casa sono chiuse in scatole trasparenti poggiate in terra e per un paio di euro ne puoi avere cinque, da portare via in un sacchetto di plastica preso chissà dove. I muratori controllano la cottura dei mattoni stampati il giorno prima e lasciati sul fuoco in cumuli simili a piramidi atzeche cave.
Passano le ore ed il paesaggio resta invariato, foreste secche con case di mattoni sparse, persone a piedi o su biciclette sovraccariche che ne percorrono il ciglio e si spostano al suono dei clacson, autostoppisti e venditori di gasolio comprato ai camionisti compiacenti che ne rubano qualche litro dai mezzi a loro affidati.
All’incrocio di queste poche e lunghe strade di collegamento si trovano locande e mercatini adagiati nella polvere, carpentieri, fabbri e meccanici. Poi di nuovo paesaggi di terra rossa e piante fino al pomeriggio, dove tutto inizia a cambiare. Raggiungiamo una zona piatta e vastissima, regno indisturbato delle termiti. L’ammirazione per un essere in grado di costruire case più alte di quelle degli uomini diventa ora un religioso rispetto. Piccole lapidi di terra ricoprono un’area circondata dall’orizzonte e l’occhio si perde in questa miriade di stalagmiti a cielo aperto che resistono al vento ed al totale allagamento del periodo delle pioggie.
Superiamo questo paesaggio lunare attraversando una palude folta di vegetazione su di un ponte lungo 3 chilometri costruito dai cinesi più di venti anni fa. Poi di nuovo alberi, pian piano inghiottiti dalla notte. Raggiungiamo Mansa e attraversiamo una strada sterrata per fermarci a riposare un po’. Un anno fa, proprio in questo punto, due uomini che correvano sono stati scambiati per quei cultori della magia nera che rapiscono i bambini. Queste stesse persone che ora compaiono davanti ai nostri fari chiedendoci col sorriso di comprare qualcosa li hanno fermati, picchiati e bruciati vivi. Mi chiudo dentro e inizio a contare i minuti all’arrivo: 300.
Usciamo finalmente da Mansa verso Lufubu, lungo una strada asfaltata ma piena di buche, mentre un’auto accosta, ci fa sorpassare ed inizia a seguirci nel buio. Saranno loro? Mi legheranno? Quanto farà male un proiettile nel ginocchio?
Le quattro ore più lunghe della mia vita, fortunatamente senza problemi.
Lufubu. Siamo arrivati.

 

 

 

La valle dei ciechi

Ci sono dei momenti in cui, lontano dai sentieri battuti nella savana, l’unico suono che riesci a sentire è il tuo respiro e lo scricchiolio della terra sotto ai piedi. Il sollievo per aver allontanato i tafani lascia il posto alla paurosa consapevolezza delle distanze e della solitudine. Dieci minuti dallo sciame di insetti, un’ ora dal villaggio, ventiquattro da un ospedale e molti ormai dal mondo come l’ho sempre conosciuto.

Alla ricerca di un suono familiare ripeto a mente qualche canzone ma scopro ogni volta di non ricordare le parole. E allora scatto fotografie, meccanicamente, confuso ed assetato nella terra rossa del mamba nero, della malaria cerebrale, della fame che uccide o rende ciechi, dove si beve il fango e le vedove per poter mangiare sposano un nuovo padrone e abbandonano i figli per strada rendendoli orfani per la seconda volta. Dove le distese in fiamme nel buio si vestono di magia quando superstizione, stregoneria ed omicidi rituali non sono solo fantasie da racconti notturni.

E gli spari nella notte non significano che è capodanno, la vita vale una manciata di dollari e se un’auto ti insegue metti la sim nel telefono piccolo pensando di nascondertelo dentro per poter chiamare aiuto quando ti avranno massacrato.

Ma al contempo un luogo che come un innesto ti infila le radici, cresce, ti trasforma. E diventa te.

Dove puoi incontrare persone amichevoli che ti accompagnano per strada e poi ti salutano come vecchi amici a cui stai dicendo addio. E poi bambini, che si bloccano a guardarti e poi corrono a chiamare gli altri, fissi ad osservare intimoriti l’alieno finché uno non si fa avanti e ti sorride e parla. Ed allora tutti seguono l’esempio e ti sono addosso, ti tirano, giocano, posano per le foto, sorridono e non ti chiedono altro se non di restare.

E non te ne andresti mai.

Un sottile strato di nubi inizia a filtrare il sole attenuando un pò la sete ed i colori di questo mondo. Fa meno caldo ora e il cobra sputatore uscirà per cacciare. Recupero punti di riferimento qua e là, un albero caduto, un termitaio, un cespuglio e mi incammino verso il villaggio.

E se mi perdessi ancora, come la scorsa notte quando ho sbagliato direzione?

 

 

Oltre i rami del Miombo

E’ un mucchio di soldi, Mary. Ho delle responsabilità verso gli altri, due mesi fa ti ho comprato altre medicine, mi dispiace non so come fare…

Charles continua a frugare nelle tasche poi con un cenno capisco, smetto di fingere e trovo qualche dollaro anch’ io. Mary ringrazia, immobile, fredda, una maschera vuota che fissa un punto nel nulla dietro di me. Raccoglie tutto, i pugni ben stretti, smalto scrostato su mani adolescenti nere di terra.

Questa storia deve finire, io non ci sarò sempre. La prossima volta tornerai a farti raschiare dallo sciamano? Devi dirmelo, Mary. Chi è stato?

Nessuno

L’eco della parola rimbalza nella sua testa un po’. Poi si ripete.
Ecco allora che i ricordi trovano breccia e vacilla. Ci torna raramente laggiù, dove ha messo Richard. L’ha ben nascosto ma quando torna lo fa gridando, come quando la difendeva, per riportarla salva al compound tenendola sulle spalle, nei pantaloni piccoli tesori rubati per lei. Una mela, due uova, c’era sempre da mangiare con lui. La sera accendeva il fuoco e cantava le vecchie preghiere al Dio Leza. Le aveva imparate a casa quando lei era troppo piccola per ricordare e allora ne approfittava per raccontarle di mamma, della sua energia, della sua dolcezza ruvida, dello nshima coi lattarini fritti nell’olio di palma come lo fanno a Lufubu.
Di quel presunto messaggio da custodire e ripetere a Mary ad ogni compleanno.

Di quella febbre che non scendeva più.

Nessuno

Mary impiegò tre giorni per ritrovarlo, cercando a piedi nudi ovunque, fino a quel dannato fosso. Nessun testimone, nessuno impiccato per l’omicidio.
Nessuno a piangere con lei un fratello di tredici anni.

E’ da allora che la ragazzina vaga tra il compound ed i terreni delle missioni, elemosina cibo e trova la mano o il pugno dell’uomo. Senza più reagire perché passa prima, a graffiare terra con le unghie, gli occhi fissi li, oltre i rami del Miombo, per migrare coi pipistrelli da frutta verso i mari del sud, una vita in volo senza più sfiorare questo mondo, senza più guardarsi le spalle anche per pisciare.

 

 

In Follie - mostra fotografica/ life/ Press/ reportage

Soccorsoclown

 

Ho fotografato attori di teatro prima dello spettacolo, ne ho respirato la tensione, ho ascoltato il mormorio di battute ripetute sottovoce mentre sistemavano il trucco. Ho assistito alla loro trasformazione sotto gli applausi della folla, appena varcato il sipario.

Ho conosciuto poi attori che non hanno palcoscenico né applausi, sistemano il trucco in un bagno d’ospedale e si muovono in corsia senza un copione da ricordare…

“Non chiedere perché abbiamo scelto di diventare clown dottori, la domanda esatta sarebbe: perché continuiamo ancora a farlo dopo tanti anni…” risponde Paolo, attore di Soccorso Clown.

“Quando abbiamo deciso di provare, questo mestiere non era ancora conosciuto in Italia… si può dire quindi che la nostra scelta sia stata fatta per passione ma senza una reale consapevolezza di come sarebbe andata. Dopo un serio percorso di formazione abbiamo iniziato a lavorare in corsia, ed ancora siamo qui… ma è uno di quei lavori che non sai mai se domani sarai in grado di continuare…”

Li seguo mentre si vestono, li osservo. Parlano tra loro, cercano di capire l’umore dell’altro e con quale bagaglio di emozioni private oggi entreranno in corsia. Lavorano in coppia, devono sapere fin dove spingersi e quanto chiedere all’altro, perché non c’è copione, non c’è pubblico che aspetta il tuo arrivo dopo aver pagato un biglietto. Qui si entra in punta di piedi, si usa la persuasione, si guadagna fiducia, si modula “l’intervento” in base alla situazione. Ci si trattiene dieci secondi, tempo di un sorriso ed un discreto saluto, o qualche minuto, coinvolgendo pazienti e familiari in giochi divertenti, gag, battute e fraintendimenti.

“Si resta fino al raggiungimento del climax, alziamo il livello di umore nella stanza e andiamo via sul culmine, per lasciare dietro di noi l’energia raggiunta prima di farla calare trattenendoci troppo…”

Entro con loro dalla caposala, le chiedono se ci sono stanze in cui è meglio non entrare, e mi spiegano che per regola non debbono sapere altro riguardo ai pazienti: debbono lavorare sulla parte sana del malato, e se davanti a loro vedessero non un paziente in difficoltà ma un essere umano, un bambino con un nome ed una storia, non riuscirebbero più a recitare.

Entro nelle stanze. Mi metto in un angolo, siedo a terra, mi pongo da spettatore di un evento straordinario. Assisto alle resistenze iniziali dei familiari, respiro l’aria sofferta di quei reparti e vedo come l’umore man mano viene trascinato verso l’alto, mentre gli attori coinvolgono sempre più ogni spettatore portandolo per mano al sorriso.

Tutti ringraziano i clown, mi stringono la mano e ringraziano anche me firmando i documenti per la pubblicazione delle immagini. Un ringraziamento profondo, sentito, una stretta di mani che faticano a separarsi…

Il personale ospedaliero accoglie calorosamente gli attori, si ferma a guardarli all’opera, mi spiega l’importanza della terapia del sorriso, dicendomi che ci vorrebbero molti più fondi per una maggiore presenza negli ospedali. Non posso che sentirmi d’accordo.

Contravvenendo all’insegnamento dei clown, mantengo contatti con alcuni dei pazienti… c’è chi ha vinto la propria battaglia, chi continua a lottare, chi purtroppo non ce l’ha fatta; riguardando le fotografie, mi hanno raccontato, hanno provato nostalgia per quei sorrisi, una calda e bellissima parentesi in un tratto così accidentato del loro cammino di vita.

Un sentito ringraziamento ai due clown dottori Paolo Scannavino e Tiziana Scrocca, a Soccorso Clown, alla direzione ed al personale del Policlinico Umberto I, reparti di pediatria ed oncologia pediatrica. Un grandissimo abbraccio a tutti i pazienti ed ai familiari che hanno autorizzato la pubblicazione delle fotografie.

www.soccorsoclown.it

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Qui davanti a te

Non speravo di trovarti ancora qui, tra queste piccole mura che per tante notti mi hanno accolto, e nessun giorno.
Guarda come è ridotto questo vecchio zaino, due vestiti qualche lente ed un sensore sporco di deserto e terra e polvere di stelle fotografate ad est in troppe notti insonni. Chissà se ritrovi qualcosa in me, sotto la cenere dei miei capelli e quella che copre la brace del tuo cuore immobile.
Hai aspettato chissà quanto, dal giorno in cui ti chiesi di non farlo e poi, in qualche modo, ti sei arresa alla mia assenza.
Il nuovo profumo che poggia sul tuo odore e questa ruga di tristezza non cancellano quella familiarità che difficilmente ritrovi in ciò che lasci, quella per il cortile che ti ha visto crescere e a cui prima o poi ritorni, quella per la mano che il gemello cerca nel buio anche dopo aver lasciato il grembo.
È molto presto hai ragione, ma forse tardi per tornare a dirti una volta ancora che mai ho sentito casa come dentro di te.
Non è cambiata la tua voce al mattino, asciutta e ruvida mi ricorda il filo nel telaio, ed il canto e le mani di mia nonna e quel suo sguardo su un mondo spezzato dalle lenti bifocali.
Viene odore di bucato, dalla porta, lo stendino è nel salone tra divano e libreria, che fuori di notte l’umido bagna i vestiti. Quelli che gocciolano no, stanno là dietro, dentro la doccia in cui si stava stretti, ma sempre in due.
Se c’è acqua frizzante dentro il frigo, di certo non è per me, così come il terzo cassetto ed il chiodo per la giacca battuto nel muro col mattone dell’aiuola.
Mi chiedo se hai ancora nel computer quel film che non finimmo mai di vedere perché ti eri addormentata, stanca dopo aver fatto l’amore. Troppe volte ho sognato di tornare per scoprire quale finale era stato riservato al protagonista e quale a noi, per raccontarti i colori dell’aurora, a Nord, quando il ghiaccio ed il cielo si fondono nel cobalto, ed i suoni della savana al suo risveglio, la passione di un tango di strada argentino, la puzza di Lisbona e quella della malaria e della paura, il soffio della balena e lo sguardo di un bambino che disseta nuvole di mosche con le lacrime rimaste.
Ti fa rabbia, lo so, se ti dico che in tutto questo tempo non ho dimenticato nulla, che alla fine tutta questa ricerca è valsa solo per ritrovare il valore di ciò che ho sempre avuto sotto il naso.
Guardami, un’ultima volta se vorrai.
Di tanta strada, il viaggio più lungo è stato il primo metro oltre questa soglia. La foto più bella, gli occhi di chi mi amava un tempo. La musica più coinvolgente, il vagito di un neonato. La danza più armoniosa, quella tra due corpi nudi e senza pelle.
Ho cercato la solitudine per poi capire che mi terrorizzava, rincorso la perfezione per affezionarmi ai difetti, conosciuto il suono degli spari che ti bloccano a terra per capire che il rumore più assordante è il silenzio, di quando ti metti a ricordare, di quando galleggi nell’aria, come nel lungo vuoto tra gli ultimi due respiri di chi si spegne tra le tue braccia su un freddo letto d’ospedale, come in quello, interminabile, che segue.
Non mi resta nulla più di questo zaino, ciò che posso darti è qui davanti a te.
Hai davvero smesso di aspettarmi?
Eccoti immobile, il minuto più lungo.

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Si sta facendo tardi

Esiste un bivio, nei miei sogni, un paio di chilometri a monte di una curva in salita in una improbabile foresta di abeti tra Anversa e Scanno.

Ogni volta che passo da quelle parti svolto per un sentiero che si srotola nel bosco fino a perdersi in una valle circondata da imponenti torri dolomitiche. Conosco bene quel luogo ed ogni volta aggiungo un dettaglio, guardandomi attorno mentre inizio a salire in quella vertigine di soggezione e pienezza di chi scala la cima e percorre la cresta.
E guarda giù, senza sicura. E guarda oltre.
Ho portato mia madre, tempo fa, rimasta a valle ad aspettare, seduta in un prato, serena tra le montagne e forte come amo ricordarla, tanti capelli, la pelle piena e lo sguardo sempre un po’ spaesato ma presente, un bagliore inafferrabile sul fondo della retina.
Ho portato mio padre, c’è voluto più tempo per convincermi, e poi le persone care incontrate nel sonno prima del bivio per Scanno. Era in qualche modo rassicurante esplorare così profondamente la solitudine delle vette sapendo di essere in compagnia, perché a valle c’era qualcuno ad aspettarmi e quel pensiero mi confortava.
“Questi sono i luoghi profondi dell’anima”, ha detto uno bravo a leggere i sogni. Bello, ma chissà che vuol dire.
Mi volto, ti guardo. Stai sognando adesso? Lo capisco da come respiri che sei altrove, che dormi e che sono solo, abbracciato a te, a fissare quella crepa sul soffitto che prima, ubriaco dei tuoi odori, vedevo sfocata.
Si sentono risate dalla stanza accanto, due voci che si passano troppi anni. Ha ancora qualche sogno in cui rifugiarsi, lei, che da non molto fa avanti e indietro per questo motel che affaccia su un mare che nessuno guarda. Si nasconderà presto dietro il cinismo di chi ne ha già viste troppe e pensa che questo schifo non cambierà.
Ti giri di spalle, con la schiena cerchi il mio calore. Sei più bella mentre dormi, non devo difendermi. Non mi allontani, non ferisci, non usi il passato per tenermi a distanza, uno al pari degli altri, uno dei tanti, rinnegando continuamente il fatto che qui sempre torni, a ripetere sotto le lenzuola che con nessuno hai raggiunto certi luoghi. Non riesci proprio a pensare che proprio là, oltre un sentiero nascosto, ne esiste uno tutto mio in cui ti terrei a vita. Che altrove ho portato chiunque e ti vorrei unica, ma non ammetto armi e così non puoi entrare.
Non lo so, se entrerai mai.
Eppure si capisce, anche se ci avveleni, che mi ami. Si legge nelle tue pupille, nel tremore della tua pelle, nel sudore ghiacciato sulla schiena mentre il resto brucia, nell’ossigeno che il tuo sangue non ruba ai polmoni e a me ritorna, soffiato in bocca quando da te respiro. Per questo ti allontani?
Durerà poco, questo idillio. Ti sveglierai a breve, che a letto con un uomo si ma poi a dormirci è cosa importante e non riesci. Aspetterai la mia doccia e poi insieme fino alla tua auto per l’ennesimo addio. Non ti rivedrò più, lo hai detto altre volte. Cosa importa, tornerò alla mia vita, penserò di nuovo, incapace di spezzare questa catena perché è solo perdendoti ogni volta che potrò sperare di rivederti, che se ti dicessi cosa provo non torneresti più.
E’ già successo, lo so.
Ti giri, stai per svegliarti. Una porta fuori si chiude. L’uomo accompagnerà la ragazza al suo angolo di strada. Una promessa, la chiamerà presto. Ciao. Addio.
Apri gli occhi, ti metti seduta.
Quanto ho dormito? Non lo so, poco.
E tu? Io no, sono rimasto sveglio.
Cosa hai, a che pensi? A niente. Vado a farmi la doccia, si sta facendo tardi.

In life/ Senza categoria/ stories

Inchiostro magico

Dovrebbero essere meno porose, le lavagnette da cucina in legno. Non si lavano mai bene e conservano tracce degli appunti presi.
Allora in questa tua potrei ritrovare ciò che hai mangiato, quali bollette dovevi pagare e quella serie di annotazioni sulla mia vita incasinata scritta ridendo in una delle nostre nottate insonni. DVD in pausa, camomilla e cappuccino in cucina e si dimenticava il film restando a parlare. Quanta disperata solitudine c’era, in quel nostro sodalizio?
Scopro solo a posteriori che in quella casa non entrava nessuno, e tu mi ci hai fatto vivere, con te. Ti ho invaso, letteralmente, temendo sempre di disturbare fino a quella bellissima tua rivelazione: “Da quando sei qui ho iniziato a dormire meglio”. Ricordo perfettamente l’odore del salone, ci credi? Non risparmieresti battute sul mio naso, lo so.
Dove l’hai comprata questa lavagna? Quando? Hai piantato tu il chiodo che la sosteneva nella tua cucina? Quale è stata la cosa più importante che ci hai scritto? E quante cose, soprattutto, hai scritto dopo il mio passaggio?
Provo a distrarmi, che è solo una lavagna vuota, ma subito vedo dagli aloni il movimento che hai fatto quando hai cancellato col panno. Ripenso alla tua orrenda calligrafia, ti immagino bambina a far disperare la maestra della prima elementare.
Non riesco a pensarti per piu di un minuto senza sorridere per qualcosa su cui ci saremmo presi per il culo. Penso a quante cose potevamo dirci ma non c’è stato il tempo.
Provo rabbia.
Fa parte di ciò che eri nel modo più profondo, lo so, ma questo tuo non chiamare per non disturbare e non dire cosa ti stava accadendo, sere come queste proprio non lo accetto.
Potevo essere li, con te. Ci sono sempre stato.
C’è un chiodo libero ora nella tua cucina e una lavagna da cucina è nel mio studio.
Chiara forse un giorno mi chiederà perché rimane sempre vuota, le dirò che è scritta con un inchiostro magico che può vedere solo papà.

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Bagaglio a mano

Ed eccoti qui a riempire il vuoto tra le mie braccia, giovane donna dalla pelle sconosciuta come il tuo accento. È nuova per te la nota legnosa del mio profumo, o ti è familiare?
Respirane ancora, prima che questo freddo vento aprendo le porte all’autunno la confonda di sale e spuma e rosmarino.
Non riescono a star fermi, i tuoi capelli, ed i loro riflessi sotto un sole ormai stanco confondono questi occhi abituati a fermare il tempo.
Chissà se tra gli ignari passanti ad ovest un randagio fiuterà nell’aria i contorni del nostro abbraccio, la terra arida e le rocce della scogliera, il soffio tra gli arbusti ed i colpi del mare e questo tuo respiro che solleva le mie spalle. Ed una farfalla che offre il profilo più sottile al vento per resistere aggrappata al mirto. Spiccare il volo fa paura a tutti, in certe condizioni.
E a noi?
Un aereo, una piccola auto ed infine due valigie che si incontrano per la prima volta.
Quanta strada avete fatto, fino ad oggi, e quanta ne verrà domani. Nuovi treni, nuovi alberghi vi vedranno lontane. Avrete memoria di oggi, forse, di una stanza fuori dal mondo, aperte una accanto all’altra ed ignare, come l’universo, di due corpi capaci di trovarsi anche nel sonno, abbracciandosi senza svegliarsi, perfettamente complementari come in una danza provata mille anni, come stelle doppie attorno al loro invisibile baricentro.
Avevi mai dormito cosi? Ho paura a chiedere.
L’ultima sveglia, la corsa in aeroporto, e noi stretti un’ora fino alla chiamata d’imbarco, un bacio ed un arrivederci che già sa di addio.
Non c’è bisogno di dirtelo, lo sai già. Chi guarda oltre la superficie delle cose non può non amare.
Allora saprai anche che stare senza di noi non sarà mai come prima.

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Domani

Continui a chiedermi perché sto qui. E tu, allora, dimmi perché tremi.
Non dovrei esserci, l’hai già detto, ma davvero vuoi che vada? Spiegami perché non sei rimasta dietro quella tenda, hai attraversato la strada allagata e adesso nel cerchio buio di questo lago vuoi mandarmi via.
Mi guardi, guardo te. Se perdi una scarpa qui non la ritrovi, ma cosa importa forse hai già lasciato molto altro.
Che tipo di disperazione ti porta? Ed io?
Non lo so cosa faccio qui, non era per entrare non c’è tempo ora. Resto qui a bagnarmi, che se alzi il viso la luce di quel lampione accende i rivoli sul tuo viso e la trasparenza dei tuoi occhi, mentre quella che si specchia a terra trema alle tue spalle e ti fa compagnia. Vorrei farci l’amore ancora un pò, con questa luce, e poi respirare nel sonno l’odore che la pioggia non riesce a lavarti. Scoprire se piangi tremi o sorridi, quando ti perdi in qualcuno, se la tua pelle si increspa o si fa rossa quando la sfiori o la stringi, o quando incontra labbra ruvide di barba. Voglio capire se nel sapore della tua bocca c’è memoria di te, degli uomini del tuo passato, di matite masticate, di caramelle da bambina, i baci di tua madre, il sacco in cui scalciavi, il profumo del mirto e della vaniglia e di terre lontane e spezie fino alla prima donna d’Africa, il mare, il fango, la Pangea.
Ma lo sai che se tornassimo così indietro saremmo una cellula unica, io e te?
Non dovrei essere qui stanotte, muto a guardarti. Serviranno scarpe nuove, domani. Allora baciami, ti prego, in questo silenzio.

In life

Francesca

E adesso con chi ricorderai di quei giorni che vivevamo insieme?

Le nottate a parlare insonni, con la tua camomilla solubile troppo dolce ed il mio nescafé? Gli Snoopy, le galline, gli armadi pieni di vestiti di quando avevi quattordici anni mentre quelli buoni restavano appesi fuori? Le notti che ti addormentavi all’una sul divano e io fuori a bussare, suonare e farti squillare il telefono contemporaneamente nella speranza che mi sentissi?

Sei stata un’amica pura, affettuosa, attenta, sconclusionata.
Era bello prendersi in giro e sentirci in qualche modo due esseri soli e vicini.

Te lo dico da sempre, io sono qui.
Sempre ad aspettare che sia tu tra due giorni a chiamare, e non io.
Ma tanto già lo so. Non chiami mai.
Ma ti voglio bene lo stesso, lo sai.

Fa buon viaggio, amica mia

 

In Senza categoria

Fotografia in contesti riabilitativi – La coscienza del sè

Anteprima del laboratorio fotografico in progress…

Photographer: Flavio Carnevale

 

In stories

A mia madre

 

Dovrei smettere di sognare, forse.

Perché di giorno i pugni dei ricordi li schivo bene, mi distraggo pensando al lavoro, a tua nipote Chiara, a qualche bolletta in ritardo da pagare, al tizio che non si muove ed è verde da mezz’ora.

Ma di notte tutto torna, e sogno il mare. Dicono che simbolicamente l’acqua è legata a te, l’ambiente che mi ha dato vita, calore, nutrimento.

Qualche giorno fa la marea saliva nelle case dei nonni e poi, ritirandosi, svelava ricordi che cercavo di salvare. Una ruota di bicicletta mi riportava al terrazzo di tua madre, alla gabbia per gli uccelli, all’odore di cucina, alle storie sui tedeschi, a te impegnata nella tua guerra a mani nude contro le lumache senza guscio che –così dicevi- massacravano le piante.

Un mandarino sul termosifone a quell’età già sapeva di Natale, di partite a tombola con i piccoli e a stoppa con i grandi. Ma che gioco è poi, stoppa?

A casa nostra, ti arrabbiavi perché spostavamo le statuine del presepe. Ti arrabbiavi per molto altro in verità ma poi, per sopravvivenza o per amore, ti rassegnavi senza smettere di lamentarti.

Preparavi la stracciatella in brodo ed ogni anno provavi a rifilarmela: E’ tradizione, dicevi.

Tradizione. Come la torta di mele ed il sorteggio in Chiesa il martedì mattina per vincere la madonnina di plastica. Come la poesia a sorpresa per l’8 marzo che puntualmente evitavo di recitare, il puzzle da fare tutti insieme per l’inverno e i documentari di Piero Angela sdraiati sul tappeto con le spalle al divano. I fagioli da sgranare insieme in cucina a cercare la regina nera, il tè nei pomeriggi freddi e le passeggiate nel bosco a cercar castagne e porcini.

Non ci andavi più a lavorare, avevi scelto noi, nella tua vita, e la passavi a voce bassa, in un silenzio rotto dai rumori di stoviglie e dai racconti sul quotidiano, dal frastuono della lucidatrice col faro fulminato e dai suggerimenti sui compiti di scuola impartiti mentre pulivi i carciofi.

Una vita in attesa, a curarti di noi mentre ci allontanavamo sempre di più. A custodire, a sistemare, a guardarci le spalle fino al nostro rientro, affamati e con altri calzini da lavare.

Un punto di partenza e di ritorno, a volte forse dato troppo per scontato, col tempo che scorre sempre uguale fino alla doccia fredda, agli accertamenti, all’eccezionale nevicata su Roma vista attraverso i vetri dell’ospedale.

E da allora visite, medicazioni, analisi, terapie. E ancora daccapo. Pronti a contare quante volte portavi la forchetta alla bocca e quante iniziavi a ripetere le stesse cose perché le dimenticavi. Abituandomi a sentir sbagliare il mio nome in una morte al contrario in cui ero io ad andarmene, prima dal presente e poi dai ricordi; nel continuo domandarmi se fosse colpa dello stress, della glicemia, dell’ossigeno, del fegato o delle metastasi, cercando di inseguire le tue parole per trovarti lì dov’eri, nei tuoi frammenti di passato e poterti dare le risposte che volevi, a non farti sentir sola, a non sentirmi solo, io.

Ciò che di buono è stato, in tutto questo dolore, nella disumana malattia ad esito certo che come questa flebo ti svuota goccia dopo goccia è stato il poter trascorrere del tempo con te dando il giusto valore ad ogni attimo, perché non si sarebbe ripetuto. E’ stato il vederti ridere da matti, con la testa sul tavolo, mangiando paella e spettegolando sui vari personaggi del nostro passato… un’unica volta al ristorante soli e insieme.

E’ stato poter essere lì nell’ennesima prova che la vita ti aveva riservato, la perdita assurda ed inspiegabile del tuo adorato fratello Sandro; ed essere lì con te fino alla fine, a rassicurarti, ad addormentarti carezzandoti il viso, a tenerti tutta la notte la mano ripetendo ad ogni sussulto… sono qui, mamma. Sono io. Cerca di riposare ora. Così torniamo presto a casa.

Ed ancora, vederci tutti e vicini e fragili, i tuoi uomini d’acciaio, attorno a te, con papà a cantarti Edith Piaf ed io e Valerio a cercar suoni da farti ascoltare… ognuno pronto a guardare altrove se l’emozione ci tradiva, ma ormai meno attenti a nasconderci…

Ormai c’è un mare di ricordi che affiorano, ed ogni momento continuerà a mancarmi chiuso in queste mani che ci hanno visto così stretti, nei miei primi passi e in quei lunghissimi ultimi minuti insieme. Ti ritroverò in certi gesti, in certi angoli, nella familiarità con alcuni modi di dire, ed in parte dei miei difetti e delle mie qualità.

Continuerò far la spesa pensando alle nostre telefonate sui prezzi delle verdure e vedrò Chiara crescere e chiedere di te, e poi dimenticarti.

Proverò a volermi bene come se fossi ancora tu a farlo. Tu che, legata, su un letto, sentendo che Papà e Valerio erano arrivati lì in ospedale hai pensato che stessero male e volevi correre da loro…

Va bene adesso ti saluto, Ida, con tutto l’amore che ho. Mi hai donato la vita, lo hai fatto due volte. Quella mia, dandomi alla luce, quella tua, dedicandoti a me. Con tutti i difetti e le qualità che rendono unico ciascuno di noi, sei stata un esempio di dedizione che dovrebbe far riflettere… me per primo. Ed un esempio di energia e di forza, con un cuore che ha retto ben oltre le aspettative dei dottori che non ti conoscevano.

E quello che hai costruito in una vita si è mostrato lì davanti a tutti, col tuo mondo tutto stretto attorno a te a darti il saluto più caldo e doloroso che potevamo.

Tra i tanti frammenti di memoria che mi stai restituendo, affiora l’immagine di noi a studiare una poesia per le elementari. Parla di calore domestico, parla di noi. Chissà come, oggi la ricordo a memoria…

 

Non ho voglia di tuffarmi

in un gomitolo di strade

Ho tanta stanchezza sulle spalle

Lasciatemi così

come una cosa posata in un angolo

e dimenticata

Qui non si sente altro

che il caldo buono

Sto con le quattro capriole di fumo

del focolare.

(Natale – G. Ungaretti)