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Qui davanti a te

Non speravo di trovarti ancora qui, tra queste piccole mura che per tante notti mi hanno accolto, e nessun giorno.
Guarda come è ridotto questo vecchio zaino, due vestiti qualche lente ed un sensore sporco di deserto e terra e polvere di stelle fotografate ad est in troppe notti insonni. Chissà se ritrovi qualcosa in me, sotto la cenere dei miei capelli e quella che copre la brace del tuo cuore immobile.
Hai aspettato chissà quanto, dal giorno in cui ti chiesi di non farlo e poi, in qualche modo, ti sei arresa alla mia assenza.
Il nuovo profumo che poggia sul tuo odore e questa ruga di tristezza non cancellano quella familiarità che difficilmente ritrovi in ciò che lasci, quella per il cortile che ti ha visto crescere e a cui prima o poi ritorni, quella per la mano che il gemello cerca nel buio anche dopo aver lasciato il grembo.
È molto presto hai ragione, ma forse tardi per tornare a dirti una volta ancora che mai ho sentito casa come dentro di te.
Non è cambiata la tua voce al mattino, asciutta e ruvida mi ricorda il filo nel telaio, ed il canto e le mani di mia nonna e quel suo sguardo su un mondo spezzato dalle lenti bifocali.
Viene odore di bucato, dalla porta, lo stendino è nel salone tra divano e libreria, che fuori di notte l’umido bagna i vestiti. Quelli che gocciolano no, stanno là dietro, dentro la doccia in cui si stava stretti, ma sempre in due.
Se c’è acqua frizzante dentro il frigo, di certo non è per me, così come il terzo cassetto ed il chiodo per la giacca battuto nel muro col mattone dell’aiuola.
Mi chiedo se hai ancora nel computer quel film che non finimmo mai di vedere perché ti eri addormentata, stanca dopo aver fatto l’amore. Troppe volte ho sognato di tornare per scoprire quale finale era stato riservato al protagonista e quale a noi, per raccontarti i colori dell’aurora, a Nord, quando il ghiaccio ed il cielo si fondono nel cobalto, ed i suoni della savana al suo risveglio, la passione di un tango di strada argentino, la puzza di Lisbona e quella della malaria e della paura, il soffio della balena e lo sguardo di un bambino che disseta nuvole di mosche con le lacrime rimaste.
Ti fa rabbia, lo so, se ti dico che in tutto questo tempo non ho dimenticato nulla, che alla fine tutta questa ricerca è valsa solo per ritrovare il valore di ciò che ho sempre avuto sotto il naso.
Guardami, un’ultima volta se vorrai.
Di tanta strada, il viaggio più lungo è stato il primo metro oltre questa soglia. La foto più bella, gli occhi di chi mi amava un tempo. La musica più coinvolgente, il vagito di un neonato. La danza più armoniosa, quella tra due corpi nudi e senza pelle.
Ho cercato la solitudine per poi capire che mi terrorizzava, rincorso la perfezione per affezionarmi ai difetti, conosciuto il suono degli spari che ti bloccano a terra per capire che il rumore più assordante è il silenzio, di quando ti metti a ricordare, di quando galleggi nell’aria, come nel lungo vuoto tra gli ultimi due respiri di chi si spegne tra le tue braccia su un freddo letto d’ospedale, come in quello, interminabile, che segue.
Non mi resta nulla più di questo zaino, ciò che posso darti è qui davanti a te.
Hai davvero smesso di aspettarmi?
Eccoti immobile, il minuto più lungo.